Ricchezza interiore che apre alla guarigione

Ricchezza interiore che apre alla guarigione

Da circa cinque anni visito le donne del carcere di Rebibbia a Roma, uno dei più grandi in Europa.
Tra i diversi reparti, uno in particolare da sempre ha richiamato la nostra attenzione: l’Infermeria, sezione nella quale si trovano detenute che hanno problemi di salute, tossicodipendenza, malattie mentali e spesso incorrono in attacchi psicotici, deliri, urla, allucinazioni. Non possono partecipare ad attività educative, non possono essere ammesse al lavoro, non possono andare in Chiesa o in Biblioteca.
Ci è stato chiesto di aumentare le ore di presenza proprio in infermeria nella speranza che ascolto, dialogo e preghiera potessero lenire il disagio e allentare un po’ di tensioni.
Tornando spesso in comunità con questo dolore da condividere, dalla creatività di sr. Silvana e sr. Tiziana è nata l’idea di proporre dei laboratori di Arteterapia in quel reparto e, dopo aver ottenuto i permessi necessari, abbiamo cominciato gli incontri.
L’arteterapia è un insieme di metodologie creative che facilitano una relazione d’aiuto. Disegnando si trasmettono messaggi che danno voce alle emozioni, ai sentimenti, ai pensieri, a ciò che è più profondo, alla dimensione spirituale. È un modo di comunicare liberatorio, terapeutico per la persona, un piccolo processo di guarigione. Usiamo questo strumento per offrire alle donne uno spazio sicuro, dove possano prendersi cura di sé, dove si sentano volute bene, accolte e capite.


L’esperienza che facciamo quando ci accostiamo a queste donne, le cui vite sono burrascose, devastate, assurde, è quella di contemplare Dio in un pezzettino di mondo lacerato. Tra quelle pieghe dolorose, Dio è presente, nell’affetto per i figli, per un genitore, nel desiderio di riscatto della propria vita, nelle lacrime di mille abbandoni. Ogni volta che andiamo in carcere non sappiamo cosa ci attende, ma andare insieme, affidando ogni cosa al Signore ci permette di contemplare quanto Dio operi in noi e nelle detenute.

Sara soffre di problemi psichiatrici. I farmaci che prende le rallentano i movimenti e la parola. Un giorno mi dice che vorrebbe mandare un disegno al suo bambino, ma con le sue mani tremanti non riesce a stringere una matita e chiede a me di dipingere una mamma con un bimbo in braccio. Le dico che sono disposta a fare il disegno insieme a lei. La tranquillizzo e accompagno i suoi gesti tenendo la sua mano. Mentre l’accompagno, avverto che è lei a muovere il colore per tracciare le forme. Prosegue da sola e poi mi chiede aiuto, perché desidera che la mamma e il bambino siano sorridenti. Sara si esprime con colori caldi e allo stesso tempo delicati. Così accompagnata, entra in contatto con sé stessa, con il suo desiderio di maternità, la sua dolcezza, il suo bisogno di essere riconosciuta. Una certezza è sepolta in fondo al suo cuore, ma solo lei la conosce: ama il suo bambino. Sara abbozza più di un sorriso e chiede di tenere con sé il suo dipinto, ripetendo più volte che il suo disegno le piace. Anche se solo per un attimo Sara si sente accolta e riconosciuta degna della vita.

Arriviamo nel reparto dell’infermeria dopo aver attraversato barriere e cancelli. Ci sono dei momenti di attesa, in cui abbiamo l’opportunità di metterci in comunione con Dio e di chiedere la pace per tutte le donne che si trovano qui. Un giorno avevamo portato dei dadi che avrebbero dovuto aiutare le nostre ospiti ad aprirsi per chiarire i loro sentimenti: in un dado ci sono impresse delle azioni e nell’altro dei simboli. Le detenute hanno chiesto anche a me di partecipare e io ho detto che vedendo il segno del libro avevo pensato al Vangelo e vedendo l’altro dado con il gesto di qualcuno che solleva un peso avevo pensato che il Vangelo ci aiuta a sollevare i nostri pesi. Allora una di loro ha detto: «Ecco, è proprio quello che voi fate con noi: sollevate i nostri pesi con il Vangelo». Per me è stato capire che anche se non avevo mai parlato del Vangelo, Gesù era entrato nella loro vita in modo evidente e riconoscibile.

Un giorno Alessia ci corre incontro mentre entriamo in reparto, tra le mani ha il disegno che aveva fatto la settimana prima strappato in vari pezzi, di cui alcuni rovinati e sporchi.
A seguito di un litigio, le donne con cui condivide la cella lo avevano staccato dal muro fatto a pezzi e buttato nel cestino. È spaventata perché le hanno detto che il suo dipinto è carico di negatività. Su quel dipinto Alessia aveva scritto una sua poesia e poi l’aveva coperta con colori forti, il rosso, il nero… le tinte della sua vita.
Le offriamo la possibilità di restaurare il dipinto e lo facciamo con colle e polveri dorate. Quando vede il risultato finale è felice e anche le compagne di cella sono contente, sollevate che si sia potuto porre rimedio al disastro di un momento di rabbia. Si offrono reciprocamente il perdono. Anche gli strappi della vita non sono definitivi: occorre offrirci sempre delle nuove possibilità, le fratture diventano trame preziose, le cicatrici diventano bellezza da esibire.

Comunità Casa Schervier

Pubblicato: 09/02/2024